Il calcolo del limite massimo delle assenze nei confronti del lavoratore invalido

17.10.2024

La questione del calcolo del periodo di comporto nel caso di lavoratore disabile quando parte delle assenze sono conseguenza dell'invalidità è molto controversa in giurisprudenza. La Corte d'Appello con sentenza del 26 ottobre 2021 ha affermato che non esiste un obbligo in capo al datore di lavoro di espungere dal comporto le assenze collegate allo stato di invalidità del dipendente, e se anche tale condotta fosse giuridicamente reclamabile, allora necessariamente occorrerebbe, al fine di rendere esigibile detto obbligo, imporre al dipendente l'onere di comunicare quali assenze siano riconducibili alla malattia invalidante, stante l'oggettiva impossibilità per il datore di lavoro di controllare detto nesso causale, non essendo a conoscenza della diagnosi e dei certificati di malattia prima dell'impugnazione del recesso.

La conservazione del posto e durata dell'assenza per malattia

L'assenza per malattia del personale scolastico è disciplinata dall'art.17, primo comma CCNL 2007.

l dipendente assente per malattia ha diritto alla conservazione del posto per un periodo massimo di 18 mesi. Di conseguenza, la durata massima dell'assenza per malattia non può protrarsi oltre i 18 mesi, indipendentemente se, sia usufruita in un unico periodo senza soluzione di continuità ovvero sia frazionatamente in più periodi.

Ai fini della maturazione del predetto periodo si sommano tutti i periodi di assenza per malattia fruiti nell'ultimo triennio precedente l'ultimo episodio morboso. Allo scadere dei 18 mesi, qualora sussistano particolari motivi di gravità, il dipendente può chiedere, a domanda, un ulteriore periodo di 18 mesi, senza retribuzione ed ai soli fini della conservazione del posto (art. 17, comma 2).

L'amministrazione prima di autorizzare l'ulteriore periodo di assenza deve procedere all'accertamento delle condizioni di salute presso la commissione di verifica, al fine di stabilire la sussistenza di eventuali cause di assoluta inidoneità fisica a svolgere qualsiasi proficuo lavoro (art. 17, comma 3).

Il licenziamento per superamento del periodo di comporto è assimilabile non già ad un licenziamento disciplinare ma ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con la conseguenza che il datore di lavoro non deve indicare i singoli giorni di assenza, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più com­plessive, idonee ad evidenziare un superamento del periodo di comporto in relazione alla disciplina con­trattuale applicabile, come l'indicazione del numero totale delle assenze verificatesi in un determinato periodo; fermo restando l'onere, nell'eventuale sede giudiziaria, di allegare e provare, compiutamente, i fatti costitutivi del potere esercitato (Corte Cassazione Sez. Lav. 23 gennaio 2018, n. 1634)

Come effettuare il computo dei diciotto mesi

L'art.17, comma 1, del CCNL 29/11/2007 stabilisce che: "Il dipendente assente per malattia ha diritto alla conservazione del posto per un periodo di 18 mesi. Ai fini della maturazione del predetto periodo, si sommano, alle assenze dovute all'ultimo episodio morboso, le assenze per malattia verificatesi nel triennio precedente".

Nel computo del triennio si sommano tutte le assenze per malattia, ivi compresi i periodi di assenza dovute a malattia riconosciuta dipendente da causa di servizio, ferme restando le differenze del trattamento economico. Infatti, nel caso di malattia dipendente da causa di servizio si ha diritto alla conservazione del posto e alla retribuzione intera per 36 mesi (art.20, comma 2, CCNL 2007).

Non si computano nel triennio le assenze per malattia dovute:

  • A gravi patologie per le quali l'art.17 comma 9, prevede l'intera retribuzione e l'esclusione dal computo dai giorni di assenza per malattia;
  • Ad infortunio sul lavoro per il quale l'art.20, comma 1 del CCNL 2007 prevede l'intera retribuzione e la conservazione del posto fino a completa guarigione clinica.

L'art.17, comma 8 del CCNL 2007 nulla dice relativamente al computo delle assenze che possono essere riconducibili alla malattia invalidante del lavoratore disabile.

La Corte d'Appello con sentenza del 26 ottobre 2021 ha affrontato la questione del licenziamento del lavoratore disabile per superamento del comporto nei termine di seguito descritti.

La vicenda trae origine dal licenziamento disposto nei confronti d un dipendente invalido per superamento del periodo di comporto e, più precisamente, per essere stato assente dal lavoro per malattia per 367 giorni nell'arco dei tre anni precedenti, ed aver così superato il periodo massimo di conservazione del posto di lavoro indicato dalla contrattazione collettiva di settore, pari a 365 giorni.

Il lavoratore ha proposto ricorso sostenendo l'illegittimità del del licenziamento. Il Tribunale dichiarava la nullità del licenziamento in accoglimento del ricorso, in quanto discriminatorio, e condannava il datore di lavoro a reintegrare il ricorrente nel posto di lavoro e a corrispondergli un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto per il periodo compreso fra la data del licenziamento e l'effettiva reintegra.

Nel motivare la sentenza il giudice ha affermato la natura discriminatoria del licenziamento sostenendo che il lavoratore essendo affetto da limitazioni fisiche a carattere duraturo che gli impedivano una piena ed effettiva partecipazione alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, doveva essere qualificato come "persona con disabilità", ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 1 e ss. del d.lgs. 216/2003 (attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro);

Inoltre, aveva affermato il Giudice l'applicazione del medesimo periodo di comporto tanto ai lavoratori normodotati quanto a quelli disabili costituisce discriminazione indiretta, atteso che i lavoratori disabili sono maggiormente esposti al rischio di contrarre patologie causalmente collegate con la loro disabilità.

Il Giudice nel caso in questione aveva anche chiarito che l'assenza del lavoratore, almeno per un certo periodo di tempo era stata determinata da una particolare patologia eziologicamente connessa all'accertata disabilità, con la conseguenza che tale periodo non poteva essere considerato ai fini del comporto.

Infine il giudice ha rilevato che:

  • è irrilevante la circostanza che il datore di lavoro non conosca la diagnosi perché la discriminazione prescinde dall'intento soggettivo;
  • nello stesso senso l'impossibilità per il datore di lavoro di differenziare le diverse giornate di assenza è ininfluente, posto che il diritto antidiscriminatorio non agisce in ottica sanzionatoria, bensì protettiva;
  • non può imporsi al lavoratore l'onere di comunicare quando l'assenza sia connessa allo stato di disabilità, poiché ciò riduce in via interpretativa le tutele riconosciute dall'ordinamento al lavoratore disabile;
  • la presenza di plurime disposizioni in tema di comporto, con periodi diversificati in ragione della gravità della patologia non esclude la discriminazione, in quanto il lavoratore non si è potuto giovare di alcune di tali disposizioni;
  • da ultimo non vi è prova che l'espunzione dal periodo di comporto dei giorni di assenza legati all'accertata disabilità ecceda il canone della ragionevolezza degli accomodamenti che il datore di lavoro è tenuto a adottare, posto che la società non ha provato che detta neutralizzazione delle assenze si sarebbe tradotta in un costo economico o organizzativo sproporzionato.

La normativa di riferimento
"Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori (…)" (art. 3, comma 3 bis del D.Lgs. n. 216/2003)

Avverso la sentenza del Giudice di primo grado il datore di lavoro produceva ricorso in appello chiedendo che venissero adeguatamente valutati le seguenti circostanze:

  • la necessità di indicare nei certificati di malattia se la stessa costituisce "patologia grave che richiede terapia salvavita" ovvero stato patologico sotteso o connesso alla situazione di invalidità riconosciuta è stata introdotta dal decreto del Ministero della Salute del 18.4.2012, e la circostanza che in nessuno dei certificati medici la malattia fosse stata indicata come sottesa alla situazione di invalidità costituiva prova del fatto che non si trattava di malattie collegate alla disabilità riconosciuta al lavoratore;
  • in presenza di una malattia prolungata o di ripetuti eventi morbosi vengono a confrontarsi due diversi interessi: quello del lavoratore a conservare il posto di lavoro e quello del datore di lavoro ad esercitare correttamente il proprio diritto di recesso, la cui composizione è possibile solo attraverso la cooperazione tra le parti, cooperazione che si traduce necessariamente in capo al lavoratore nel dare notizia sulla riconducibilità della malattia alla disabilità;
  • il nostro ordinamento interno prevede un apparato di meccanismi difensivi attraverso i quali al lavoratore disabile è già garantito un periodo di conservazione del posto più lungo, e, tra questi, il congedo per cure ex art. 7 d.lgs. 119/11, i tre giorni di permesso mensile retribuito ex art. 33, comma 3, legge 104/92, la diversificazione del comporto contrattuale in ragione della gravità della malattia ovvero della durata della stessa.

La Corte d'Appello accoglie il ricorso del datore di lavoro con una articolata motivazione.

La Corte di appello ha osservato che se è innegabile che il giudice di primo grado abbia individuato una discriminazione indiretta in danno del disabile nella modalità di computo delle assenze per malattia, in quanto questi è esposto al rischio ulteriore di una infermità legata al suo handicap, e, pertanto, corre un rischio maggiore di accumulare giorni di malattia, è altrettanto vero che le conclusioni cui è giunta la Corte non possono essere estese ad ogni caso di licenziamento del disabile, sia perché la fattispecie sottoposta al giudizio del Tribunale di primo grado era caratterizzata da profili fattuali peculiari, sia perché in ogni caso è necessario valutare l'obiettivo complessivamente perseguito dalle norme di diritto interno e valutarne la legittimità.

Secondo la Corte di appello "E' infatti indispensabile soppesare gli interessi giuridicamente rilevanti delle parti del rapporto di lavoro: da un lato l'interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente con il suo stato fisico e psichico, in una situazione di oggettiva ed incolpevole difficoltà; d'altro lato l'interesse del datore a garantirsi comunque una prestazione lavorativa utile per l'impresa, tenuto conto che l'art. 23 Cost. vieta prestazioni assistenziali, anche a carico del datore di lavoro, se non previste per legge (Cass. SS.UU. n. 7755/1998.) e che la stessa direttiva 2000/78/CE, al suo considerando 17, "non prescrive ... il mantenimento dell'occupazione ... di un individuo non competente, non capace o non disponibile ad effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione". L'interesse del lavoratore disabile a conservare il posto di lavoro deve essere ponderato in relazione sinallagmatica con quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che le assenze cagionano all'organizzazione aziendale, bilanciamento di interessi del tutto trascurato nella sentenza impugnata".

Il giudice di secondo grado prosegue osservando che "se poi anche si volesse ipotizzare l'esistenza di un obbligo in capo al datore di lavoro di espungere dal comporto le assenze collegate allo stato di invalidità del dipendente, affermazione non condivisa dal collegio," va da sé che tale obbligo necessita, per essere adempiuto, della conoscenza della ragione dell'assenza, possibile solo con la cooperazione del dipendente sul quale incombe l'onere di comunicare le assenze riconducibili alla disabilità. L'adempimento di detto onere è reso estremamente agevole dal d.m. 18.4.2012, che ha introdotto la possibilità di indicare nei certificati, barrando la corrispondente casella, se l'assenza dal lavoro sia uno stato patologico connesso alla situazione di invalidità riconosciuta.

La composizione dei contrapposti interessi delle parti è quindi possibile solo per il tramite della collaborazione di entrambe, e la comunicazione ad opera del lavoratore disabile dei giorni di malattia riconducibili alla disabilità, oltre ad essere condotta certamente non gravosa, si inquadra nel rispetto dei canoni di buona fede e correttezza nell'adempimento della prestazione.

Nel giudizio di bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti non può infatti prescindersi dalla considerazione che è il lavoratore a dover dimostrare l'esistenza di una causa giustificatrice dell'assenza, fatto impeditivo dell'inadempimento conseguente alla mancata erogazione della prestazione lavorativa.

Nel caso in esame, il lavoratore aveva trasmesso i certificati medici relativi alle sue assenze per malattia senza curare che negli stessi venisse indicata la riconducibilità causale dell'assenza alla sua condizione di invalido, né aveva in altro modo comunicato tale circostanza.

Per cui secondo la corte ne consegue che "l'inadempimento del lavoratore all'obbligo di cooperazione rende quindi inesigibile il preteso obbligo del datore di lavoro di espungere dal comporto le giornate di assenza correlate all'invalidità.".

In conclusione la Corte di appello accogliendo il ricorso del datore di lavoro, osserva che la potenziale discriminazione del disabile a causa dell'aumentato rischio di assenze per malattia è esclusa in radice dalle norme di legge e contrattuali che prolungano il periodo di comporto del disabile; nel caso di specie il ccnl di settore prevedeva un periodo più lungo di conservazione del posto di lavoro in ipotesi di evento morboso continuativo e un comporto prolungato nel caso in cui, alla scadenza del comporto breve, sia in corso una malattia con prognosi pari o superiore a 91 giorni di calendario . In questo senso, osserva ancora il Collegio, la norma contrattuale tutela quindi in modo differenziato i lavoratori che, a causa delle loro condizioni di salute, siano maggiormente esposti al rischio di assenze prolungate.